Mai, almeno nella sua storia recente, il Giappone aveva vissuto un disastro sismico come quello che l'ha messo in ginocchio lo scorso marzo.
Forse una risposta al perché delle grandi catastrofi non c’è, ma una riflessione sullo stato di salute del nostro pianeta è doverosa. Mentre scrivo, un referendum democratico decreterà il 12-13 giugno la fine o l’inizio di una nuova stagione nucleare e noi di Time in Jazz siamo contro il nucleare e a favore delle energie alternative, pur consapevoli delle difficoltà legate all’individuazione di nuove fonti energetiche.
Di fatto il percorso intrapreso dal festival nel 2009 ci impone una coerenza con le scelte fatte. Coscienti che una manifestazione musicale come la nostra - che è seguita da un pubblico sempre crescente – possa suggerire un approfondimento sui temi in questione.
La storia della nostra coscienza ambientale comincia nel 1997, quando Antonello Salis tenne un concerto all’interno della chiesetta campestre di Sant’Andrea che è rimasto nella memoria collettiva come uno dei momenti più emozionanti della storia di Time in Jazz.
Mai fino ad allora un pianoforte era entrato fra quelle mura di granito e l’impressione fu quella di una musica dirompente e allo stesso tempo delicata che dialogava con quel luogo intriso di religiosità e di umanità.
La storia della nostra coscienza ambientale comincia nel 1997, quando Antonello Salis tenne un concerto all’interno della chiesetta campestre di Sant’Andrea che è rimasto nella memoria collettiva come uno dei momenti più emozionanti della storia di Time in Jazz.
Mai fino ad allora un pianoforte era entrato fra quelle mura di granito e l’impressione fu quella di una musica dirompente e allo stesso tempo delicata che dialogava con quel luogo intriso di religiosità e di umanità.
Ricordo poche cose di quella mattina. La prima è il caldo bestiale e l’odore acre del sudore: quello del numeroso pubblico che si era assiepato all'interno della chiesetta e quello di Antonello che sprizzava energia da tutti i pori.
La seconda è il rumore sordo di un posacenere che si frantuma sul coperchio del pianoforte. Antonello non fece una piega e continuò ad accarezzare e a percuotere le corde dello strumento con le mani sanguinanti per le ferite inferte dalle schegge di vetro. Mani rosse come il fuoco della sua musica.
La terza sono i visi del pubblico incredulo davanti a questo spettacolo e il pianto di Antonello provocato dall’emozione palpabile in quel luogo di culto.
Il resto è storia. Ed è anche storia recente. Quella delle centinaia di concerti tenuti nelle altre chiesette, nelle più prestigiose basiliche romanico-pisane di tutto il nord Sardegna e nei luoghi naturali immersi nel nulla, tra boschi, laghi, riviere e graniti. Sui treni e nelle stazioni ferroviarie, sulle navi e negli aeroporti, negli ippodromi o tra le pietre dei nuraghi e delle Domus de janas.
Dovessi andare a ritroso per rileggere la storia di questi 24 anni di festival direi che quel concerto a Sant’Andrea è stato forse il momento topico della nostra rassegna. Perché le ha dato dignità civile e perché l’ha realmente messa in relazione con il territorio e con la gente rendendola internazionale dal punto di vista del suo significato recondito.
Quando nell’ormai lontano 1988 disegnai le linee guida del festival che stava per nascere, le idee erano poche ma chiare. Una di queste era il non volersi accontentare di un evento fine a se stesso, capace di rispondere solo a un’urgenza estetica o spettacolare.
Sarebbe stato troppo poco e irrilevante per formulare una risposta convincente alla giusta domanda che si ponevano allora i miei concittadini: "Perché fare un festival di jazz a Berchidda?".
Ora una risposta la abbiamo. Risposta che può mettere d’accordo tutti: volontari e appassionati, pubblico e artisti ma anche coloro che non amano necessariamente la musica o il jazz e che si scoprono sensibili ai problemi di oggi anche grazie a un festival che vuole far riflettere.
Dopo aver peregrinato nelle due ultime edizioni intorno ai temi dell’acqua e dell’aria, quello della terra, purtroppo, non poteva essere più attuale. Perché il jazz è da sempre musica tellurica come il nostro pianeta. In perenne movimento e pronta a fratturarsi ogni qualvolta si crea un nuovo scontro/incontro lessicale e sonoro.
Stavolta sarà dunque questo elemento a suggerirci le nuove alchimie sonore e artistiche di questa ventiquattresima edizione di Time in Jazz. E gli elementi non saranno più i quattro che stiamo trattando, ma i molteplici che hanno a che fare con lo stato della terra. Stato che cambia da luogo a luogo e da continente a continente, come la musica che vi si produce e che varia il suo umore in una frazione di secondo e secondo la fertilità dei luoghi che la ospita.
Terra e musica argillosa, vulcanica, arida, fertile, torbacea, sabbiosa, grassa, secca, franosa, ubertosa, incolta, arata, dissodata, improduttiva… Terra e musica capaci di raccontare il difficile cammino dell’umanità di oggi, e in grado di fotografare tuttora, nella società industriale, informatica e metropolitana odierna, i lavoratori agricoli, i frutti, l’abbandono, il ritorno, il grembo terreno, le case fangose di quello che continuiamo a chiamare terzo mondo, i colori, le terre emerse o le porzioni della stessa. Porzioni spesso minacciate dalla mano dell’uomo.
E allora per noi la terra ha il sentore dell’Africa e del Brasile. Dell’Argentina e dell’America nera. E’ un viaggio a ritroso nel tempo e nelle geografie, il nostro. Tesi tra l’arcaicità e la primitività del suono e la contemporaneità dei loop elettronici.
Terra è per noi il declinare pensieri e promesse dettate da un suono migrante che viaggia dal Mali al Congo. Che raggiunge gli Stati Uniti soggiornando nel Brasile della samba, mettendo radici forti nella Tierra del Fuego argentina e cilena.
Ma terra è anche sinonimo di percussione e di danza. Di telluricità e di stratificazioni geologiche come quelle documentate dalle pietre sonore di Pinuccio Sciola. Di ondulazioni gestuali e rituali come il flamenco o come la fisicità del rito africano.
Questo è il nostro festival. Che dedichiamo quest'anno al popolo giapponese e ai popoli del Nord Africa, così vicini per geografia di terra e così lontani per libertà sognata e non ancora raggiunta.
"La terra ridà quel che si dà", dice un saggio proverbio, e ciò sarà da monito per tutti noi. Fortuna che ne esiste un altro che recita: "La terra si ammala ma non muore".
E’ in questa prospettiva che ci accingiamo a sviluppare non solo il tema di quest'anno ma anche il prossimo del 2012 dedicato al fuoco.
E’ in questa prospettiva che ci accingiamo a sviluppare non solo il tema di quest'anno ma anche il prossimo del 2012 dedicato al fuoco.
Non a caso l’edizione numero cinque di Time in Sassari ha come titolo “Tierra y Fuego: Argentina mi amor”. Perché quella porzione di mondo è la Tierra del fuego e perché terra e fuoco sono da sempre in simbiosi.
La tragedia di Curraggia del 1983, l'incendio nelle campagne di Tempio Pausania in cui morirono nove persone che tentavano di spegnere le fiamme, è troppo recente per essere dimenticata e per non indurci ancora una volta a una riflessione profonda sull’uomo e sulle sue responsabilità nei confronti del pianeta in cui viviamo.
Metteremo a ferro e fuoco il mondo, se necessario, in difesa del luogo che ci ospita e in difesa di un festival che compirà venticinque anni il prossimo anno con le incertezze di sempre!
Paolo Fresu